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Niyama, i 5 precetti dello yoga

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Che cosa si intende con il termine sanscrito niyama? Lo yoga prescrive delle regole di comportamento nei confronti degli altri (gli yama, di cui abbiamo parlato qui) e nei confronti di se stessi (niyama). I nyama, in tutto cinque come gli yama, costituiscono il secondo dei gradini dello yoga enunciati da Patanjali, uno dei “padri spirituali” dello yoga.   Mentre gli yama si riferiscono a divieti o astensioni, i cinque niyama propongono dei comportamenti positivi, delle azioni da attuare nei confronti di se stessi.

Quali sono i cinque niyama?

Shaucha (purificazione). Le impurità presenti nel nostro corpo e nell’ambiente in cui viviamo condizionano la nostra capacità di pensiero e la possibilità di raggiungere la vera saggezza e la liberazione spirituale. Se il corpo è il tempio dell’anima, è su di esso che dobbiamo in primo luogo agire attraverso la pratica di asana, pranayama e meditazione. Shaucha  richiede di purificare anche l’ambiente attorno a noi: impegniamoci quindi a creare purezza anche fuori dal nostro corpo, seguendo una dieta sana ed equilibrata e circondandoci di amici, arredamento e trasporti privi di impurità.

Samtosha (contentezza). La felicità reale si ottiene quando si smette di desiderare ciò che non si possiede. Cancelliamo dalla nostra mente la convinzione errata che potremo essere davvero felici solo quando otterremo una desiderata ricompensa materiale (una casa più bella, un’auto più potente, abiti più eleganti) perché la gioia che questo genere di conquiste ci dona è passeggera. Dobbiamo acquisire la consapevolezza che l’universo ci dà ciò di cui abbiamo bisogno. Possiamo coltivare Samtosha attraverso la capacità di vivere il momento presente perché solo nel momento presente la nostra mente è libera da desideri, paure e rimpianti. Anche quando pratichiamo yoga non accaniamoci per eseguire la posa perfetta, ma siamo soddisfatti di ciò che abbiamo ottenuto.

Tapa (autodisciplina). Questo principio ha a che fare con il potenziamento della forza di volontà. Come? Facendo ciò che non si vorrebbe fare o viceversa. Per esercitarlo possiamo fare quello che è il fioretto nella tradizione cattolica: rinunciare a qualcosa che piace per un periodo di tempo, imporsi di rispettare delle regole. La disciplina alimenta un fuoco interno che brucia le impurità fisiche e mentali mentre consolida la forza di volontà. Anche mantenere una posizione yoga (eseguita consapevolmente e non meccanicamente) è un’espressione di tapa, poiché significa trattenersi dal muoversi e guardarsi intorno.

Svadhyaya (studio e conoscenza di sé). Analizzare sé stessi, la propria vita, i propri errori e le proprie debolezze è un’esplicazione di ciò che è Svadhyaya. “Chi sono io?” è la domanda essenziale di questo niyama che ci induce a contemplare la nostra vera natura divina attraverso la meditazione. Svadhyaya prevede anche lo studio di testi sacri e spirituali che possono farci da guida nella nostra ricerca interiore.

Ishvara Pranidhana (devozione). “Non devi credere in una rappresentazione antropomorfica di Dio per accettare che esiste un disegno divino, un’essenza benevola nell’universo”, dice a Yoga Journal Joan Shivarpita Harrigan, direttore del Patanjali Kundalini Yoga Care. E da questa premessa partiamo per approfondire il quinto niyama che prescrive la devozione a qualcosa di più grande. Secondo Patanjali lo scopo dello yoga è rinunciare al Sé e alla nostra natura egocentrica per per affidarci a una forza più elevata. A questo si deve ispirare la nostra pratica di yoga perché sia sacra e piena di grazia, pace ed amore.

 

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